PERSONE

Migrant story telling #01

di Valentina Avoledo

Parliamo di migranti. Il lessico si è ingentilito, si stanno estinguendo parole come “clandestino” o “vu cumprà” (troppo anni 90) ma le intenzioni sono peggiorate. Da qualsiasi parte la si guardi “l’emergenza” è riuscita a cambiare la percezione dei fatti, dividendoci in due gruppi senza sfumature in cui si è o “buonisti” o “fascisti”, segno dell’enorme deficit descrittivo di un fenomeno pieno di variabili. Ogni giorno mi chiedo se “l’emergenza migranti” sia una prova di civiltà o una scusa per impoverire quelli che si sono rassegnati alla povertà, non la povertà dei mezzi e dei guadagni, ma la povertà del futuro “a uso transitorio” e a cedolare secca.

In fondo, ognuno ha il proprio progetto migratorio: vagare da un contratto a un altro, mettere via i soldi per l’intercontinentale, imparare l’inglese, prendere lezioni di tango, partire per l’Erasmus, mangiare sushi, comprare una tenda e uno zaino da trekking, eccetera. Nessuno di questi progetti prevede la morte o la fuga da una città in guerra. Già questo sarebbe sufficiente per provare un accenno di comprensione verso chi è costretto a farlo. La questione è talmente sfaccettata che non mi sento di spenderci le trite parole che tutti osano, credo sia sufficiente ricordare come la gran parte degli interessi delle nazioni sia concentrato sul potenziale economico dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” e molto meno sullo sviluppo umano dei suoi abitanti. Come se il causa-effetto che regola il mondo intero non valesse per l’equazione: impoverimento = fuga.

Al di là delle analisi economiche, geopolitiche e sociali, rivendico il diritto allo sdegno verso l’indifferenza e l’ignoranza che gravita intorno all’idea comune sui migranti.

Io li conosco, li conosco personalmente. Mi occupo di insegnare loro l’italiano, lo faccio da qualche anno. Ho conosciuto diverse decine di richiedenti asilo, asiatici e africani, perlopiù uomini, per la maggior parte musulmani. Cercherò di raccontare chi sono i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati politici, nella speranza che possano avere una voce, o magari solo un ritratto scritto. Per proteggere la loro identità chiamerò i maschi Mhm1, Mhm2 eccetera (Mhm sta per Muhammad) e Ftm1, Ftm2… (Fatima) le donne.

Mhm #01

È partito per la Carnia prima che finisse il progetto Sprar. Ha mandato il cv in una cooperativa che cercava mediatori per l’Alto Friuli e si è candidato senza dire niente agli amici: quando si tratta di lavoro si diventa gelosi e protettivi verso i propri contatti, le raccomandazioni e le priorità acquisite. Mhm1, 27 anni, afghano, ha imparato l’italiano dopo due anni di permanenza e ha ottenuto lo status di rifugiato politico. La cooperativa che lo ha assunto si occupa dei nuovi arrivati, quelli che si sono appena “annunciati” in questura e sono richiedenti asilo in attesa di ricevere (o no) i documenti. Mhm1 ha fatto il mediatore anche nel suo paese, lavorava per gli americani, ma era più facile, dice, perché qui non è semplice capire – e spiegare – la non logica della burocrazia italiana.

Nei primi tempi Mhm1 frequenta corsi di formazione, studia la sicurezza nel posto di lavoro e le leggi sull’immigrazione. Mi scrive chiedendomi cos’è un “solvente” o la differenza tra “diffida e ammonimento”.

Dopo due mesi mi dice di avere paura che non gli rinnovino il contratto: gli utenti, tutti pakistani, si sono lamentati della sua presunta incompetenza, in verità sono i nervosismi per la precarietà della loro condizione, ma soprattutto le antiche ruggini territoriali del non buon vicinato tra Afghanistan e Pakistan. Un vecchio nemico è sempre un buon capro espiatorio per la propria frustrazione. Mhm1 mi dice di aver perso cinque chili ma è contentissimo (gli piacciono i superlativi) del rapporto con i colleghi e di vivere in montagna.

A fine anno mi comunica di aver firmato il contratto a tempo indeterminato, mi manda foto della Carnia innevata, qualche selfie in cui è serio e concentrato. Non sei contento? Gli chiedo. Lui dice, Sì, sì, sono contento, ma ho l’impressione di aver perso qualcosa, nel mio paese ogni giorno muore qualcuno negli attacchi.

Mi chiedo chi sarei io se fossi nata in un paese in guerra da 40 anni: quella che resta, quella che scappa, o la vittima di un’autobomba mentre vado a scuola? Rispondo a Mhm1 con banali ovvietà, che ne so di cosa voglia dire una guerra lunga mezzo secolo. Gli scrivo: pensa al futuro, forse un giorno riuscirai a fare qualcosa per il tuo Paese. Lui mi liquida con un “grazie” lapidario e poi mi chiede: “Come si dice quando hai fame e hai le voci nella pancia?” e “ Come si dice quando uno dorme e fa rumore con il naso?”, perché ora Mhm1 deve solo pensare a costruire un’inappuntabile competenza da mediatore. Ormai, è già scappato dal suo Paese e il senso di colpa per i suoi connazionali è il terreno su cui si allungheranno le sue nuove radici europee.

di Valentina Avoledo